Annalisa Sonzogni

Una Strega Innocente

di Andrea Branzi

Un aspetto interessante delle foto di Annalisa Sonzogni, è costituito dal fatto che la notte sembra giorno; e gli esterni sembrano interni.

E' come se le differenze fondamentali che organizzano la nostra esperienza (notte-giorno, dentro-fuori) cominciassero a scomparire, sottoposte allo sguardo di una strega innocente che fluidifica le contrapposizioni, scavalca gli spigoli e stabilisce una sorta di percezione del tutto sdrammatizzata della città e del mondo, immerso in una crema vellutata, elegante e intermedia.

Una crema che ha una consistenza ectoplasmatica, priva di increspature, ma non del tutto tranquillizzante, perché lo sguardo che vi si muove dentro sembra cercare qualcosa che non è ben definito. Non è lo sguardo puntuto dei fotografi realisti, né quello volumetrico dei fotografi urbani; sembra piuttosto il modo di guardare le città da parte di qualcuno che non ha una direzione, e neppure la cerca.

Lo sguardo apparentemente casuale di qualcuno che non è interessato all'identità dei luoghi, né al loro significato, ma piuttosto alla verifica della corrispondenza di quella città con un'idea precedente, innata, che anticipa la conoscenza del paesaggio, e lo colloca su un piano neutro, e intermedio tra sogno e veglia.

Se infatti i fotografi oggi hanno un ruolo, credo sia quello di spostare l'attenzione del pubblico dalla fotografia al fotografo, cioè dall'oggetto al soggetto che scatta. Lo scopo del fotografo infatti è di insegnare al pubblico a guardare, non le singole immagini, ma i motivi per cui si fotografano cose e paesaggi già conosciuti, logorati da infiniti sguardi e scatti precedenti, ma in realtà portatori ancora di informazioni e di sensibilità del tutto originali.

Sembra infatti che ci sia sempre qualcosa da scoprire, un livello da indagare; magari per far emergere un significato nascosto, o piuttosto un non-senso generale. Infatti se esistono singole immagini significative, allora vuol dire che tutto il mondo è significativo. Ma se esistono immagini insignificanti, allora vuol dire che tutto il mondo è insignificante. Le immagini delle fotografie sono infatti singole molecole, di un sistema a loro identico.

Non è un caso quindi che le fotografie notturne della Sonzogni riguardino le tre città del triangolo della magia bianca: Torino, Lione e Praga. Tre città molto diverse tra di loro, che però nella notte bianca diventano quasi interscambiabili: un po' inquietanti, sfuggenti, ma prive di quel mistero che forse qualcuno si aspetta. Tre città normali che appartengono però a un mondo sospeso, dove notturno=diurno, interno=esterno, quasi a dichiarare che se la magia bianca esiste, essa consiste forse nella sua completa normalità a-normale, in quella fusione delle differenze conosciute, in un'unica penombra generale.

Non mi sembra che ci sia quindi una grande distanza tra queste fotografie, e ciò che si cerca oggi di progettare in architettura: luoghi sfuggenti, confini sfumati, filtri invisibili, reti attraversabili. Qualcosa di difficile da disegnare e da fotografare; qualcosa che appartiene più al mondo delle semiosfere, che a forme conosciute di città.

Questo confine estremo, dove l'architettura cerca la sua dimensione più debole e più diffusa, che non coincide più con i singoli edifici e con lo scenario del costruito, ma con un territorio enzimatico dove tutto si trasforma e si fonde senza cambiare forma, forse esiste già oggi. Queste fotografie in parte lo dimostrano: la normalità inespressiva della magia coincide infatti con i paesaggi di tre città, che sono del tutto uguali alle altre. E tutte insieme immerse in un acquario universale, in un brodo tiepido che solo i fotografi ci insegnano a vedere.

Le finestre accese, aperte nella notte su stanze vuote, il succedersi inutile di volumi architettonici vecchi e nuovi, certi riflessi catodici di televisioni accese in appartamenti disabitati (?), confermano una generale caduta di senso delle nostre città, che slittano silenziosamente da essere organismi funzionali e specializzati, in matrici catatoniche, prive di funzione perché prive di destino. Immagini di Macchine Celibi che non si aprono mai al Surrealismo, per svelarci significati nascosti; al contrario rimangono sempre sulla soglia di ciò che si vede (e soltanto di ciò che si vede), per darne però una versione a alto un livello di innocenza. Senza dramma, senza metafore, senza contrasti. Pure fotografie.

Ho sempre pensato infatti che la vera tragedia di oggi consiste nella scomparsa della tragedia stessa, intesa come categoria espressiva riconoscibile. Essa consiste piuttosto con l' impossibilità (e inutilità) di utilizzare le sue forme tradizionali per rappresentarla e per esorcizzarla. Con la scomparsa infatti della metafisica, la tragedia non si può più riconoscere nelle vesti stracciate e nelle maschere deformate dall'angoscia: essa al contrario aderisce totalmente alla realtà normale, e può essere rappresentata soltanto dalla fotografia, così algida, inutile e oggettiva, che non lascia spazio a significati simbolici; e anche a manovre preventive per evitarla.

Così a differenza di molte fotografie urbane, amate dagli architetti del XX secolo, piene di contrasti e prospettive, queste fotografie sfuggenti mi sembrano appartenere a un XXI secolo e alle sue lente e silenziose mutazioni, che non producono terremoti evidenti, ma bradisismi quasi invisibili. Seguono infatti una pista non chiara, perché appartengono proprio a questa nostra civiltà della penombra.