Annalisa Sonzogni

Sempre Reversibile, Anche Per Piccoli Slittamenti

di Francesco Scasciamacchia

Il lavoro di Annalisa Sonzogni ha come centro la pratica fotografica, la relazione che esiste fra l’architettura come luogo ontologico di spazio e tempo e il modo in cui lo spazio architettonico in sé diviene forma complessa di significati quando viene rappresentato e/o vissuto. In particolare, attraverso l’uso della fotografia e dell’installazione, l’artista invita a riflettere sul meccanismo percettivo umano che separa il luogo reale dell’esperienza da quello rappresentato per porci di fronte a una realtà ‘confusa’ e ‘ibrida’ dove il soggetto (colui che vede nella foto una realtà altra al reale) sta vivendo nello stesso tempo, lo stesso spazio, attraverso la fotografia che lo rappresenta. Una tautologia che confonde la maniera in cui siamo soliti vivere l’esperienza della fruizione di un luogo architettonico, della sua storia, dei suoi elementi e della sua essenza fisica in una data dimensione temporale. Una tautologia – composta dallo spazio reale e simultaneamente dalla sua rappresentazione – che va oltre la fisicità di una foto o dell’architettura nelle sue componenti tangibili per condurci a una dimensione esperienziale. L’oggetto fotografia, come l’oggetto spazio architettonico, sono per l’artista solo strumenti, utili alla creazione di una esperienza percettiva che strania il modo convenzionale in cui generalmente interpretiamo il mondo sensibile. Uno straniamento che si distanzia dalle ordinarie dicotomie che ci aiutano a interpretare il mondo: il rappresentato e il reale, lo spazio fisico e lo spazio mentale, il contenuto e il suo supporto, gli oggetti d’arte e i loro contenitori museali per una fusione in cui le due entità si sovrappongono, fondono e confondono.

Così camminando per le sale della Pinacoteca di Brera, certi di fruire le opere qui esposte  e di interpretarne il milieu, il loro significato, la loro tecnica, il loro dato storico ci imbattiamo nel loro ‘doppio’ fotografato ad una distanza in cui, il contenuto rappresentato nelle tele della Pinacoteca diventa quasi una forma astratta. Uno spazio di astrazione dove, quello che usualmente consideriamo il centro delle opere – ciò che è rappresentato – si fonde in un tutt’uno con la messa in scena creata dagli elementi di contesto in cui l’opera è inserita: le cornici, le pareti e il loro colore, le sedie, le porte, le uscite di sicurezza, le didascalie.
La serie di fotografie, synopticon, 2014 ribaltano non solo la relazione fra contenuto e contenitore, ma anche la nostra maniera di esperire gli spazi d’arte attraverso una attenzione che si rivolge alla narrazione delle opere qui esposte e alla storia ‘ufficiale’ degli spazi che le ospitano. In maniera differente invece, i due trittici e i quattro dittici della serie spostano il nostro interesse verso ciò che usualmente consideriamo come un mero supplemento, incapaci di intendere che non esiste un ‘centro’ senza una ‘periferia’, una ‘mostra’ senza ‘didascalie’, un ‘protagonista’ senza ‘secondi attori’, una ‘rappresentazione teatrale’ senza ‘costumi’ o meglio un ‘dipinto’ senza una sua ‘cornice’. In questo senso il supplemento diviene il centro, ma un centro di attenzione non totalizzante, se no un centro nel centro, dove nessun elemento è il vero protagonista, ma tutti gli elementi (il dipinto, la sua cornice, le pareti della sala, le sedie, ecc.) assumono la stessa rilevanza in una relazione paritaria tesa a decentralizzare il potere di una narrazione sopra le altre per una visione che destabilizza la soggettività dello spettatore. Non solo spaesato dal doppio di ciò che vede ‘reale’ (i dipinti e le sale proprie della Pinacoteca) e di ciò che vede ‘rappresentato’ (le fotografie degli stessi dipinti e delle stesse sale), lo spettatore si trova anche a questionare il proprio usuale modo di interpretare il mondo attraverso una relazione gerarchica che pone alcuni elementi al centro (in questo caso la importanza storico-artistica dei dipinti e degli spazi storici di Brera) e altri ai margini (le forme architettoniche, le luci, la pavimentazione, il colore delle pareti, i paletti di distanza di sicurezza, ecc.).

Nel trittico synopticon XII-VI-VII, ad esempio, l’attenzione delle foto è posta sulla strutture architettoniche di archi (nelle due foto laterali) e di un tetto a vetri (nella foto centrale), figure e forme che emergono come qualità alla pari di dipinti, pareti e apparati espositivi. Ponendo in relazione, nella dimensione bidimensionale della fotografia, elementi che pertengono a differenti sale della Pinacoteca, l’artista invita lo spettatore a connessioni inaspettate che alterano la narrazione singolare che pertiene a ognuna delle sale. Queste connessioni, nonostante, a volte, attraverso una speculazione storica possano essere contenitori di informazioni sull’epoca di costruzione e sulle ristrutturazione successive, sono invece nel trittico associazioni multiple e quasi libere, basate su assonanze della forma. Sono strutture di pensiero associativo che cercano di fuggire il mondo ‘ufficiale’ di costruire la storia –attraverso strutture di conoscenza o scienza positive come i canoni dell’architettura o della storia stessa– atte a favorire una riflessione o un questionamento in ogni fruitore. Una riflessione che invita a considerare linee, colori, luci e ombre come possibili elementi che alterano la nostra esperienza di fruizione e decentralizzano la idea che la narrazione –ciò è rappresentato nei dipinti o ciò che la storia e l’architettura ci raccontano di questi spazi– non sia al ‘centro’ come elemento principale, e il resto semplici ornamenti corollari, ma che tutti, anche quelli che nella nostra mappa cognitiva consideriamo irrilevanti, sono alla pari elementi fondanti per una esperienza di fruizione, soggettiva, complessa e associativa.

Se interpretiamo le foto di synopticon, come siamo soliti fare, come meri oggetti di rappresentazione ci troviamo di fronte ad una esperienza ossimorica dove la qualità narrativa della foto –la nostra attenzione rivolta a interpretarne il significato– si scontra con l’impossibilità di leggere e/o osservare il contenuto dei dipinti, la narrazione costruita dal display e il tutt’uno architettonico per invece essere immersi una messa in scena corale di elementi sovrapposti dove multipli strati di significato non sono in grado di essere ordinati in un ordine gerarchico. In una certa maniera, l’esperienza costruita dalle foto e dalle installazioni di Annalisa Sonzogni è di de-gerarchizzazione e de-centralizzazione, strategie che operano non solo fra gli elementi che fabbricano il tutt’uno, ma che agiscono anche sulla soggettività dello spettatore che si trova di fronte a un mondo ‘caotico’. Un caos contraddetto dall’ ‘ordinato’ della precisione, della attenzione ai dettagli, della composizione simmetrica dalle pensate messa in scena fotografiche dell’artista.
 
Chiaro esempio di questo ordine è il dittico XXI della stessa serie synopticon che simmetricamente fotografa i due lati della stessa sale con tre sedie poste specularmente fronte e retro alla sala e con due porte di entrata e uscita alle due estremità del dittico. Nuovamente un ‘doppio’, come se il nostro apparato visivo già non fosse in grado, se non ponendo una estrema attenzione, di decifrare dove esattamente ci troviamo dati gli slittamenti minimi da una foto all’altra (le sedie rivolte in due direzioni diverse, l’indicazione con luce verde di uscita e la targhetta XXI poste sopra le rispettive entrate, i due e i tre interruttori per la luce). Qui, però nonostante la replica della stessa sala, l’elemento che chiaramente ci sta indicando che trattasi di lati diversi dello stesso ambiente sono i differenti dipinti o meglio le differenti cornici. Quest’elemento ci riconduce nuovamente al modo della percezione visiva di discernere in modo chiaro e nitido che ci troviamo nella stessa sala in due porzioni diverse della stessa. In questo caso, synopticon XXI opera nel piano piatto della fotografia una doppia relazione, non solo quella che altera la percezione visiva ma anche quella che opera esattamente con gli stessi criteri e logiche della percezione nel modo in cui generalmente la intendiamo: vediamo le cose per decifrarle e in modo chiaro assimiliamo un messaggio e una informazione sicuri e certi del reale che corrisponde al ‘rappresentato’ nella foto –in questa caso che le fotografie siano scatti inconfutabili della stessa stanza, nonostante di due suoi lati diversi.

Non solo le foto di Annalisa Sonzogni si distaccano dall’oggetto foto per divenire strumenti dell’esperienza rendendole quasi ‘performative’ ma anche divengono nel loro modo di presentare la de-gerarchizzazione fra elementi (puramente architettonici e non) piani bidimensionali per la costruzione di un pensiero o, meglio di un modo filosofico o una maniera di intendere e interpretare il reale.
Un reale che sempre considera l’interno e l’esterno, ciò che è parte integrante nella costruzione di una entità oggetto o pensiero e ciò che è ad essi esterno, come supplemento e per questo ‘insignificante’.

Similarmente al concetto di parergon teorizzato dal filosofo Jaques Derrida per la valutazione estetica della pittura in La verità in pittura del 1978 la visione del mondo presente nelle foto dell’artista non raggiunge mai l’evento della verità (nel caso delle foto, mai il rappresentato è esattamente omogeneo al reale) ma piuttosto, se di verità trattasi questa è irriducibile alla dimensione della speculazione (costruire una narrazione attraverso ciò che è rappresentato) o alla dimensione storico-filologica (interpretare l’opera attraverso i criteri di anno, stile, movimento o epoca).
Derrida definisce parergon ciò che “[...]si scontra, è al fianco, e si aggiunge all’ ergon, l’opera realizzata, il fatto, (che) non opera solo in una dimensione ma che tocca il e coopera con il funzionamento dell’opera stessa, da un certo fuori. Né semplicemente dal di fuori né semplicemente dal di dentro. Come un accessorio che uno è obbligato ad accogliere a bordo, sul bordo.1 Seguendo nella sua analisi della valutazione estetica della pittura il filosofo argomenta che il parergon non è solo un accessorio insignificante alla comprensione dell’opera, come un abito o un gioiello posto su una scultura di figura umana o come una cornice nel caso della pittura, o come le colonne nel caso della architettura, ma è piuttosto un elemento ibrido che si colloca fra il dentro, l’ergon (il soggetto dell’opera) e il fuori (la cornice o il milieu). In questo modo, tutto ciò che consideriamo accessorio come esterno alla lettura di un’opera è in realtà una entità necessaria senza la quale l’opera stessa non significherebbe, se non al di là di una mera speculazione narrativa o interpretazione storico-filologica.
Il parergon è infine una qualità di ciò che manca all’opera per farsi opera. Solo attraverso la sua inclusione nel dentro e fuori, in un confine fra opera e suo esterno, possiamo cogliere l’irriducibilità di qualsiasi opera d’arte a una narrazione o interpretazione che solo seguirebbe canoni estetici e della rappresentazione che si inseriscono in un dato fuori: il contesto economico, politico, culturale e sociale di un dato milieu.

Nel porre l’attenzione quindi, nella serie synopticon, su elementi di contesto, per dirla con Derrida ai parerga (le cornici, le sale, l’apparato espositivo, le luci, ecc.) Sonzogni ci trascina in una esperienza dove tutte le categorie di analisi, interpretazione e valutazione estetica di un opera che considerano il centro (ciò che è rappresentato) vengono azzerate o semplicemente oscurate (come ad esempio i soggetti delle tele a Brera). L’artista ci invita a esperire l’irriducibilità dell’opera d’arte ai criteri oggettivi e ufficiali attraverso cui si costruisce la storia e la valutazione estetica. Ci trascina in una distorsione fra il reale e il rappresentato, confondendo la nostra posizione di spettatori né al di dentro né al di fuori del reale, ma in un confine ‘ibrido’. In una posizione generativa che ci permette di valorare ciò che usualmente filtriamo come accessorio insignificante e che invece, se incluso, nella nostra mappa di valori condurrebbe a una esperienza del reale alternativa a quel rappresentato che ci è narrato come univoco e inequivocabile. Sonzogni ci conduce in un piano dell’esperienza sconosciuto, l’indicibile che è contenuto nella negazione di una rappresentazione chiara e nitida, creando, attraverso l’architettura forme e figure, tanto reali quanto astratte, ‘ibride’ appunto, se associate in modo arbitrario.

Il dato dell’esperienza di fruizione si fa ancora più presente nell’installazione identikit (2014) presentata nello spazio di riss(e) a Varese. L’installazione è costituta da un’immagine a tutta parete rappresentante uno degli ambienti interni dell’ ex scuola Lilian Baylis a sud di Londra dismessa dal 2005 e una poltrona rossa, una parete gialla, una tenda e un tavolino che ripropongono, quasi esattamente, e quasi scientificamente, gli elementi d’arredo presenti nella foto, ma in uno spazio altro. Così questa volta l’elemento di spaesamento non è solo creato dal doppio fotografato (con minimi slittamenti dal reale) e nello stesso luogo (come avviene per esempio nella serie synopticon) ma agisce su più piani: uno spazio abbandonato con i suoi resti si ripropone in uno spazio altro, lo spazio di riss(e) che non a caso ha affinità con la scuola (il pavimento rosso, le colonne, i neon, le canaline industriali dell’impianto elettrico); la foto che rappresenta quasi esattamente il dato reale dell’installazione; lo spazio della scuola abbandonata a Londra e lo spazio di riss(e). Una volta ancora, non si tratta solo, di vedere nella fotografia e nell’installazione, oggetti di rappresentazione, anche se con slittamenti che alterano la realtà, ma di una nuova realtà ontologica al confine fra reale e rappresentato. Si tratta di una esperienza di fruizione che viaggia sugli stessi binari della realtà, altera la nostra percezione immergendoci visivamente in una dimensione spazio-temporale di spaesamento per porci come soggettività né dentro, né fuori ma in uno spazio liminale dove il centro dell’orientamento reale (in questo caso lo spazio architettonico di riss(e)) è dislocato e confuso dallo spazio altro (quello della scuola Lilian Baylis).

Per la mostra all’Istituto Italiano di Cultura di Cittá del Messico, Sonzogni non fa altro che seguire le orme della sua ricerca artistica precedente creando una messa in scena fatta di doppi (fotografato e reale), di slittamenti minimi (fra dettagli del reale e del rappresentato) che ha come centro di azione lo spazio architettonico stesso dell’edificio in cui è ospitato l’Istituto. Questa volta l’effetto di straniamento opera in due sensi: al centro dello spazio espositivo, come uno specchio, una grande foto ritrae lo stesso spazio svuotato. Scattata alcuni mesi prima della sua esposizione, quando l’artista si reca a visitare l’area dedicata alle mostre, la foto si fa amplificatore della profondità della sala come se prolungasse lo spazio espositivo. Come se, artificialmente, ci fosse un’altra sala, identica a quella che stiamo attraversando visitando la mostra. Sì, quasi identica, ma svuotata dal ‘complesso’ fotografico che l’artista orchestra per la sua prima personale in Messico. Insomma un’architettura, quella fotografata che apparentemente uguale nei suoi elementi architettonici, incorpora slittamenti che confondono. Ci si chiede: siamo qui e ora nello stesso spazio spettatori della mostra con la nostra attenzione rivolta alle foto dell’artista, mentre allo stesso tempo, siamo in quello spazio, quasi identico, rappresentato quando la sala vuota è stata fotografata dall’artista. Questa foto, il doppio del suo reale, palesa la struttura architettonica nuda, senza opere, e ci permette di vedere, in negativo (attraverso l’assenza di opere installate di mostre precedenti o delle stesse foto della Sonzogni) ciò a cui di solito non prestiamo attenzione quando fruiamo opere d’arte. Il centro: le opere d’arte con la loro narrazione sono, come nelle serie synopticon, oscurate, o meglio qui sottratte per evidenziare ciò che lasciamo ai margini della nostra percezione: la struttura svuotata che le ospita. Attraverso questo espediente, non solo l’artista pone l’accento al dentro e fuori allo stesso tempo, ancora una volta per collocarci in una situazione di limite, di confine o di bordo, ma anche per enfatizzare gli strati architettonici, storici, sociali e culturali che caratterizzano un luogo e ne costruiscono la sua narrazione. Mai come in questo caso, dato il passaggio di molteplici direttori dell’Istituto con differenti visioni culturali, il passaggio di differenti mostre, il diverso uso degli spazi, i recenti pannelli bianchi sovrapposti alle antiche pareti dell’edificio, lo spazio architettonico è contenitore o palco di irriducibili storie e narrazioni. Per questo, rappresentare lo spazio svuotato e poi riempire lo stesso spazio reale con il suo doppio è un modo per aprire alle mille archeologie del passato, irriducibili alla mera lettura storica, filologica o culturale. Per dirci non come stanno veramente le cose (il reale o la storia), ma semplicemente che non esiste una verità sopra le altre, ma una stratificazione di narrazioni sempre reversibili, anche per piccoli slittamenti.

Al fianco della centrale foto, nella mostra in Messico, nelle pareti laterali della sala l’artista presenta alcune foto della serie synopticon, di nuovo ponendo uno spazio altro alla realtà. Foto che, questa volta, assumono un carattere di distanziamento duplice, non solo di disorientamento dallo spazio e luogo in cui ci troviamo, l’Istituto Italiano di Cultura in Messico, visto che le foto sono state scattate in Italia alla Pinacoteca di Brera, ma un distanziamento dalle informazioni che vorremmo estrarre dai dipinti contenuti a Brera. Sí, siamo in uno spazio della promozione della cultura Italiana, ma piuttosto che guidarci in una dimensione quasi turistica sulla narrazione contenuta in questi dipinti, la Sonzogni ci riporta all’idea che non esiste, come in tutti i suoi lavori, una narrazione o una storia unica, fissata che viaggia per il mondo, sull’Italia (di cui la Pinacoteca di Brera diviene l’espediente) ma piuttosto diverse angolature, come quelle di una macchina fotografica, con luci, ombre, colori, pareti e posizioni molteplici.

L’artista titolando la sua serie synopticon sembra rimandarci all’idea di panottico, come teorizzata da Michel Foucault. Foucault nel suo saggio, Sorvegliare e Punire. La nascita della Prigione2 del 1975 rifacendosi a un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham –un carcere progettato in modo da permettere ad un unico vigilante di sorvegliare tutti i carcerati senza che questi si accorgessero di essere osservati– pone l’attenzione all’esistenza di un unico potere invisibile della società contemporanea di osservare (opticon) i comportamenti di molti (pan). Synopticon invece sta per una relazione invertita, ossia, il potere di molti di controllare l’uno, come nel meccanismo della società mediatica con le celebrities. Titolando la sua serie di foto sulla Pinacoteca di Brera, synopticon, l’artista utilizza questo titolo come una metafora, non per replicare il meccanismo della foto di narrare ciò che vediamo della vita di uno per consegnare informazioni di controllo a molti, ma per catturare quell’uno ‘illeggibile’ (la rappresentazione oscurata dei dipinti) e restituire la narrazione a molti, non solo ai mille, innumerevoli elementi che, solitamente lasciamo da parte nella costruzione di una narrazione o storia univoca, come le cornici, le luci, gli apparati didascalici, le sedie, ecc. ma anche alle molte forme e figure, che se considerassimo come solo astratte e quindi illeggibili non saremmo in grado di vedere le archeologie multiple che contengono
– impossibili da fissare all’interno di un’unica, oggettiva e inconfutabile storia. Quella narrata solo attraverso la rappresentazione di cui la foto è il medio, se non la si utilizza con le molteplici angolature come nelle foto del reale e del loro doppio di Annalisa Sonzogni.     

 

NOTES

1- Jaques Derrida, La Veritá in pittura, University of Chicago Press, Chicago, 1987, p.45

2- Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Giulio Einaudi Editore, Torino 1995.