Annalisa Sonzogni

La verità della chiaroveggenza

di Ermanno Cristini

Nello spazio di riss(e) coesistono l’immagine fotografica a tutta parete dell’ex scuola Lilian Baylis, costruita nel 1964 nel quartiere di Lambeth, sud di Londra, un istituto dismesso dal 2005 e in procinto di essere riconvertito in appartamenti privati, e la riproposizione di alcuni elementi di arredo in tutto simili a quelli visibili nella fotografia.

L’edificio londinese presenta in origine coincidenze curiose con lo spazio di riss(e): il pavimento rosso, le colonne, i neon in alto, le canaline industriali dell’impianto elettrico. La fotografia di Annalisa Sonzogni è costruita ad evidenziare queste similitudini. L’installazione poi rimarca l’ambiguità della situazione: una poltrona e un tavolino che paiono gli stessi della foto, e così l’orologio alla parete, le tende, il colore giallo intenso del muro principale, a creare un sistema di rimandi continui tra la realtà bidimensionale della foto e quella tridimensionale della scena allestita in spazio. Il tutto è attraversato da lievi “scarti”, sussulti della “chiralità”, come le tende che evocano quelle originali ma sono diverse e diverse sono tra loro nelle altezze, quasi ad esplicitare lo “straniamento” della situazione, poi la tinteggiatura della parete, che sfugge al “copione” e si dà in modo alterno in due porzioni che riguardano l’una una stanza e l’altra l’altra stanza. Piccoli elementi di distacco dal modello soggiacenti alla sua adesione e che ci orientano verso un atteggiamento analitico e critico entro cui prende forma, anche attraverso un continuo gioco di rimandi cromatici e compositivi, la voce della natura modernista della cultura di progetto di cui si sta parlando.

Dunque scena, ma non scenografia, perché il senso della mostra è forse quello di  ricostruire un “delitto”: l’assassinio definitivo della dicotomia tra realtà e immagine della realtà. E allora il discorso sull’architettura diventa discorso sulla fotografia. Nella mostra di Annalisa Sonzogni le due cose si mescolano al punto che le certezze in merito alla nostra capacità di orientarci tra immagini e cose vacillano e le une diventano le altre e viceversa a seconda dei punti di vista che si adottano. Più precisamente l’immagine diventa strumento di comprensione della realtà agendo da elemento che la costituisce per elevarne la pregnanza. Appunto, come nell’identikit.

I punti di vista, per definizione, rimandano al ruolo di chi guarda, ovvero ai testimoni oculari. L’identikit, in quanto strumento per la ricostruzione della realtà si basa proprio sui testimoni oculari.

Nulla di oggettivo, o di documentario, ma solo la testimonianza, con la sua “verità” fuori dal documento. I “piedi” dell’identikit affondano,  e fondano la solidità del corpo, entro il terreno della memoria. Si nutrono di tracce che galleggiano come cicatrici del tempo.

Nella realizzazione dell’identikit occorre “chiudere gli occhi” per vedere.
Anche quando l’identikit è una fotografia il suo livello di verità non ha nulla a che vedere con le credenze che accompagnano la presunta oggettività dell’immagine meccanica. Eppure proprio per questo forse l’identikit è la “verità” della fotografia.
Scrivevano Riccardo Panattoni e Gianluca Solla ‘La somiglianza assoluta che a differenza della pittura essa promette, s’infrange sulla dissomiglianza, sull’inverosimile della sua verità (…) Così, sebbene sia alla portata di tutti, la fotografia sfugge sempre’ ing’1
Annalisa Sonzogni sembra voler vivere dentro questa fuga continua, per cercare la verità. Il suo lavoro si disegna come interrogazione entro lo specifico fotografico, paradossalmente proprio addentrandosi nei pericoli di quel bordo spugnoso dove realtà e finzione si rincorrono, si sovrappongono, si distinguono e si confondono.

Al fine, con il mettere il coltello nella “piaga” della fotografia questa mostra conduce alla questione dell’identità.
E d’altra parte tale è il tema dell’identikit. L’identità è quel concetto che oggi, almeno a partire dalla dialettica hegeliana, ha sempre più assunto sul piano ontologico una valenza relazionale. Smarrite le ancore della sostanza aristotelica, l’identità naviga tra i flutti della mutazione lontano dai porti sicuri della permanenza. Se così è si tratta di un elemento in continua costruzione, anzi ricostruzione. Per certi aspetti essa è il prodotto di una finzione in quanto esistente non come dato ma come continuo risultato. Afferrabile solo nella vertigine della sua fuga.

E’ la vertigine a prendere forma in IDENTIKIT I, al cospetto di nuovi testimoni oculari, o, forse, oculisti. Non si può non pensare infatti ai Témoins oculistes di duchampiana memoria. “Oculistes”: anche qui, lieve scarto della parola che carica di ambiguità il testo. Essi sono dispositivi della problematicità del vedere, e, secondo Octavio Paz, guide per percorrere la strada che separa “from voyeurism to clairvoyance” (Octavio Paz, Water writers always in plural). La chiaroveggenza implica una visione “sensitiva”, che emancipa il destino dell’immagine spostandolo dalla pelle delle cose allo spessore della loro carne.
IDENTIKIT I, nell’applicazione rigorosa della pratica della ricostruzione è un esercizio di “chiaroveggenza” che, attraversando l’architettura con gli strumenti della fotografia, colloca la riflessione sull’identità al crocevia tra verità e verosimiglianza.

Così il cerchio si chiude rivelando in controluce l’identità della fotografia nel suo essere corpo dell’identità, e l’identità nel suo essere corpo della fotografia, sotto lo sguardo attento dei Témoins.

 

NOTES

1- Panattoni Riccardo, Solla Gianluca, Il corpo delle immagini. Per una filosofia del visibile e del sensibile, Marietti, Milano, 2008